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La settima stagione di “Black Mirror”: tra sequel inattesi e satira graffiante, la serie non si spegne

Ah, la settima stagione di “Black Mirror”… un nuovo ciclo di episodi che si sono appena posati sul catalogo Netflix. Ebbene, da osservatore del panorama cinematografico, devo ammettere di aver trovato questo nuovo viaggio nelle ombre tecnologiche innegabilmente stimolante, e in diversi momenti, direi, piuttosto riuscito. Charlie Brooker, ancora una volta, ci offre una varietà di narrazioni che toccano le nostre inquietudini digitali, ma con una vena di novità e una capacità di evolvere che ho notato con un certo interesse.

Prendiamo ad esempio la chiacchierata “USS Callister: Into Infinity”. Certo, è il primo sequel diretto nella storia della serie, e alcuni potrebbero interpretarlo come una mancanza di audacia. Personalmente, l’ho percepito più come un omaggio ben congegnato a un episodio molto apprezzato, che ne espande l’universo narrativo in modi che, a mio avviso, meritano attenzione. Ritrovare Nanette Cole, interpretata sempre con bravura da Cristin Milioti, alle prese con nuove sfide in questo MMORPG ormai autonomo è stato, devo dire, un piacevole ritorno. Forse non presenta le stesse “osservazioni incisive sul potere” del suo predecessore, ma l’esplorazione delle dinamiche di gruppo e della lotta per la sopravvivenza in un ambiente virtuale ostile rimane coinvolgente e ben realizzata, con una produzione di notevole livello. E non dimentichiamo quella che potrebbe essere definita una sorpresa per i fan!

L’episodio inaugurale, “Common People”, ci introduce in una realtà che appare inquietantemente plausibile con la sua satira, forse non troppo velata, del modello di abbonamento applicato alla sanità. La storia di Mike (Chris O’Dowd) e Amanda (Rashida Jones) e la loro lotta con la spietata Rivermind è, a mio avviso, una lente d’ingrandimento sui potenziali pericoli della mercificazione dei bisogni primari. Certo, la metafora potrebbe non essere delle più sottili, ma la sua rilevanza nel contesto attuale mi sembra innegabile. Osservare come una tecnologia potenzialmente salvavita si trasformi in uno strumento di pressione economica è un monito potente e, direi, incredibilmente attuale.

“Hotel Reverie” ci offre, a mio parere, una digressione onirica e intrisa di romanticismo nell’ambito dell’intelligenza artificiale e del cinema. L’incontro tra Brandy Friday (Issa Rae) e la “resuscitata” digitalmente Dorothy Chambers (Emma Corrin) è, a mio modo di vedere, un’idea affascinante, che richiama le atmosfere, forse un po’ meno magiche, di “San Junipero”. Sebbene alcuni abbiano trovato la trama forse un po’ “ondeggiante”, ho apprezzato il tenero sentimento che permea l’episodio e le notevoli interpretazioni delle due protagoniste. L’esplorazione del rapporto tra interprete e personaggio, amplificata dalla tecnologia, mi è sembrata un’intuizione interessante sul potere del cinema e sull’impatto emotivo delle figure sullo schermo.

Con “Eulogy”, “Black Mirror” ci regala, a mio avviso, un momento di intensa emozione e riflessione sul tema del ricordo. La performance notevole e toccante di Paul Giamatti nei panni di Phillip, un uomo che rivive i suoi ricordi attraverso vecchie fotografie, è il vero cuore pulsante di questo episodio. L’utilizzo della tecnologia come strumento di introspezione e potenziale guarigione emotiva è, a mio modo di vedere, una prospettiva più completa e meno cupa rispetto ad altri episodi della serie. La qualità quasi teatrale della narrazione contribuisce a rendere “Eulogy” uno degli episodi più profondi e, direi, memorabili della stagione.

“Plaything” si distingue, a mio parere, per la sua originalità e la peculiarità della sua premessa. Il ritorno di Will Poulter nel ruolo di Colin Ritman, in un episodio che sembra avere un legame con “Bandersnatch”, è un gradito elemento per gli appassionati. L’interazione tra il personaggio interpretato da un eccentrico e convincente Peter Capaldi e le misteriose creature digitali chiamate Thronglets crea, a mio avviso, un’atmosfera di tensione e inquietudine. Sebbene alcuni abbiano trovato il finale forse un po’ sbrigativo, ho apprezzato l’ambizione narrativa e la capacità di “Black Mirror” di sorprenderci con idee, oserei dire, fuori dagli schemi.

Infine, “Bête Noire” ci offre, secondo la mia interpretazione, un thriller ad alta tensione che esplora il tema del gaslighting nell’era digitale. La performance di Siena Kelly mi è parsa intensa e coinvolgente, e l’escalation degli eventi mantiene lo spettatore, direi, con il fiato sospeso. Anche se il finale potrebbe apparire, per alcuni, un po’ sopra le righe, la dinamicità della narrazione e la riflessione sulla manipolazione tecnologica rendono questo episodio, a mio avviso, un’aggiunta interessante alla stagione.

In conclusione, questa settima stagione di “Black Mirror” dimostra che la serie ha ancora, a mio parere, molto da offrire e da indagare. Nonostante alcuni episodi possano suscitare opinioni diverse, il livello generale mi è parso elevato, con interpretazioni di rilievo, idee originali e la consueta capacità di Charlie Brooker di stimolare una riflessione sul nostro rapporto con la tecnologia. Il coraggio di sperimentare con il formato, con il sequel e il collegamento a “Bandersnatch”, è, a mio avviso, un segnale di vitalità creativa. Certo, il mondo evolve rapidamente, ma “Black Mirror” continua a essere uno specchio, forse distorto, ma incredibilmente perspicace delle nostre paure e delle nostre speranze digitali. Personalmente, non disdegnerei affatto una prossima stagione.

Stefano Camilloni

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